Nr.9 / 15 agosto 2021

TICINO DOJO JOHO

Notizie e approfondimenti sul JUDO, a cura dell’ATJB

Ritorniamo, per qualche considerazione generale, sui giochi olimpici di Tokyo, ai quali è stato dedicato interamente il numero precedente di TDJ.

Valutiamo poi le regole di combattimento applicate ai giochi, ritroviamo la rubrica per bimbi "i viaggi immaginari di Kano" ed approfondiamo storicamente il tema del "dojo yaburi".

In questo numero iniziamo anche una nuova rubrica mensile dedicata al codice morale del judoka, il primo valore proposto è l'amicizia.

 

Chi avesse contributi da pubblicare in TICINO DOJO JOHO è invitato a trasmetterli al coordinatore del progetto (e-mail: mbfrigerio@bluewin.ch).


Indice del nono numero:

  1. Qualche considerazione sui giochi di Tokyo - Marco Frigerio
  2. Le regole di combattimento attuali - Marco Frigerio
  3. Il codice morale del judoka: l'amicizia - Manrico Frigerio
  4. I viaggi immaginari di Kano - Thea Bontadelli
  5. "Dojo-yaburi" - Marco Frigerio

QUALCHE CONSIDERAZIONE SUI GIOCHI DI TOKYO

I giochi olimpici di Tokyo 2021 si sono appena conclusi.

Nel numero precedente abbiamo riferito dei risultati e abbiamo proposto qualche commento a caldo.

A bocce ferme è tempo di tornare con qualche considerazione generale sul tema.

 

Mi preme innanzitutto segnalare come alle competizioni di judo hanno preso parte 393 combattenti provenienti da 128 nazioni rappresentanti tutti e cinque i continenti.

Quando diciamo che il judo è l'arte marziale più diffusa al mondo non diciamo quindi  una fesseria, ma una assoluta verità.

 

Scorrendo il medagliere troviamo poi conferma dei paesi dove la disciplina è maggiormente promossa; Giappone e Francia dominano incontrastati (da anni) con Olanda, Germania, Italia, Russia e Georgia, nonché Sud Corea e Mongolia costantemente presenti.

Forze nuove si affacciano tuttavia alla ribalta judoistica come Israele (bronzo nella gara a squadre) e Kosovo (con due ori individuali nelle categorie femminili).

Seguire le competizioni non è stata operazione semplice: da un lato le qualifiche si combattevano per noi alle prime ore del nuovo giorno, per i diritti televisivi poi - dal sito della IJF (contrariamente ai grandi eventi internazionali) - gli incontri non potevano essere seguiti. Grazie tuttavia alla RSI, su uno dei canali streaming dedicati ai giochi - pur senza commento - si sono potuti seguire (in diretta) tutti gli incontri dei blocchi finali (ripescaggi, finaline e finali). Per disporre di un commento serio e competente, le finali  - in particolare quella a squadre - hanno potuto anche essere seguite sui canali francesi.

Lo spettacolo, per chi ama il judo, era quindi ben visibile.

 

Nei commenti apparsi sui social è quindi sorto, come per altro c'era da aspettarsi, il "solito" scontro tra puristi (che invocano il judo tradizionale) e moderni che invece plaudono al judo agonistico.

Che dire al riguardo ?

Il judo mostrato ai giochi è il judo agonistico con il quale chi pratica è tenuto a confrontarsi; Jigoro Kano non ha creato le competizioni di questo genere (pur non essendosi nemmeno opposto), un praticante di judo completo non può dunque rinunciare "tout court" all'agonismo dove emozioni, abilità e consapevolezza di sé vengono messe alla prova e i propri demoni devono essere gestiti.

La gara è il naturale compendio del judoista; così come naturale è il confronto nel randori. Inoltre la gara è indubbiamente occasione di crescita: chi vince (uno solo) impara a gestire le grandi soddisfazioni, chi perde (tutti meno uno) impara ad accettare i verdetti della vita ed a rialzarsi per ripartire.

Quanto si è visto a Tokyo rappresenta il judo attuale e chi è rimasto ad una versione tradizionale - quando poi (magari) da giovane era un agonista - è incoerente e fuori dl tempo.

Il mondo evolve sempre e così il judo, non perdiamo il treno parlando solo al passato, dal quale certo abbiamo parecchio da attingere, ma che non può costituire il solo punto di riferimento.

 

 

Il medagliere dei giochi (quindici erano i titoli in competizione):

Giappone 9 ori / 2 argento / 1 bronzo = 12

Francia 2 ori / 3 argento / 3 argento = 8

Kosovo 2 ori = 2

Georgia 1 oro / 3 argento = 4

Repubblica Ceca 1 oro = 1

Sud Corea e Mongolia  1 argento / 2 bronzo = 3

Germania 1 argento / 3 bronzo = 4

Austria 1 argento / 1 bronzo = 2

Cuba, Slovenia e Cina 1 argento = 1

Russia 3 bronzo = 3

Brasile, Canada e Italia 2 bronzo = 2

Olanda, Ucraina, Portogallo, Azebargian, Uzbekistan, Kazakistan, Belgio, Inghilterra e Isrele 1 bronzo = 1

 

Uchi-mata vincente di Teddy Riner (terzo classificato nell'individuale a +100 kg) contro il giapponese Aaron Wolf (campione olimpico della categoria -100 kg) nella competizione a squadre. L'incontro si è concluso al golden score con un waza-ari in favore del campione francese, grazie alla tecnica pulita e sul tempo qui in fotografia.


LE REGOLE DI COMBATTIMENTO ATTUALI

Le attuali regole di combattimento sono spesso oggetto di critica.

Attualmente si riassumono in quattro minuti di gara con proseguimento illimitato al "golden score" in caso di parità, senza che le penalità siano decisive se non al terzo richiamo che porta all'espulsione, con interdizione di prese alle gambe sia in attacco che in difesa (nella fase in piedi del combattimento) e valutazioni limitate a waza-ari e ippon.

Negli ultimi tre quadrienni olimpici l'IJF ha modificato le regole di competizione a più riprese. Personalmente ritengo che le regole applicate a questi giochi siano sostanzialmente corrette e che le stesse permettano delle competizoni eque dove il judo vero può uscire vincente.

 

Finalmente infatti chi vince l'incontro lo vince perché ha applicato con successo una tecnica e non perché è sembrato più attivo. Certo alcuni waza-ari attribuiti lasciano dei dubbi, un tempo avrebbero (forse) portato ad un "koka". Il concetto di waza-ari tuttavia è mutato; non è più un ippon al quale manca un elemento (velocità / controllo / arrivo di uke sulla schiena) ma un movimento che porta ad un contatto con il tatami da valutare.

Dimenticato il concetto tradizionale di waza-ari (mezzo punto) la valutazione moderna è proponibile e, in ogni caso, più comprensibile per chi da neofito guarda una competizione.

 

Le competizioni originali di judo non erano a tempo, ai primi giochi (Tokyo 1964) il tempo di gara era di quindici minuti; che il "golden score" possa quindi durare altrettanto ed anche di più non è un problema anzi. La resistenza che i judoka mostrano in situazioni di sofferenza al "golden score" è un elemento in più di distinzione per il judo.

Anche Shohei Ono - per vincere il suo secondo oro olimpico nella categoria -73 kg - è ricorso al "golden score" ed ha sofferto parecchio. Guardandolo, non avrei detto che potesse trovare il guizzo decisivo per superare il georgiano Lasha Shavdatuashvili (anch'egli già campione olimpico nel 2012 e campione del mondo 2021); così però è stato grazie ad un superbo hiza-guruma a sinistra.

 

L'interdizione delle prese al di sotto della cintura, nel fase di competizione in piedi, è importante in quanto impedisce una serie di posizioni difensive estreme che, di fatto, avevano snaturato il judo.

Chi affronta il combattimento con le regole attuali non può limitarsi a bloccare le iniziative dell'avversario ed attendere il momento buono per un contraccolpo. Anche se alcune tecniche si sono perse (come te-guruma e kuchiki-taoshi) oppure hanno dovuto essere adeguate (come kata guruma) reputo che il miglioramento ci sia stato.

Ricordo la squadra iraniana ai campionati del mondo di Basilea nel 2002: posizioni in diagonale, piegati a squadra con le braccia pronte a bloccare ogni iniziativa degli avversari. "Orridi spettacoli" di questo genere, a questi giochi, non se ne sono visti e ciò non può che essere salutato quale progresso.

Certo, gli incontri che pongono di fronte il judo tecnico al judo fisico non sono mancati, basti pensare alla finale dei -81 kg tra il giapponese Nagase (sorprendente vincitore, grazie a un bel tai-otoshi, al golden score) contro l'iraniano naturalizzato mongolo Mollaei, tuttavia - grazie alle regole imposte - anche combattimenti di questo genere risultavano apprezzabili.

 

Il judo tecnico ha vinto questi giochi.

Certo non sempre e non in ogni categoria. Lo spettacolo però non è mai mancato. Chi da neofito ha guardato le competizioni di judo non può non avere capito che il judo forma combattenti: persone che credono in sé stesse, sanno soffrire per raggiungere un obiettivo e sono pronte ad affrontare ogni evenienza.

"Sani, forti utili alla società" diceva Jigoro Kano, la gara impone salute e forza, la fase filosofica è lasciata a chi insegna. Nei singoli club - da subito e costantemente - deve avvenire la trasmissione dei valori che il judo ha in sé.

Personalmente ho apprezzato lo spettacolo anche se (da una vita) attendo inutilmente che vengano sanzionati coloro che "fingendo di attaccare" si buttano a terra; penso in particolare a diversi seoi-nage in ginocchio, totalmente inesistenti, che (ironia della sorte) portano a sanzionare l'avversario per passività ! Anche quest'anno c'è stato chi, con un judo di tal "orrida fattura" ha conquistato la medaglia di bronzo ...

Shohei Ono - emblema del judo tecnico - non poteva mancare l'appuntamento con il suo secondo oro olimpico. Al golden score è infatti riuscito a piazzare un hiza-guruma decisivo nella finale della categoria -73 kg.


IL CODICE MORALE DEL JUDOKA: l'amicizia

Il judo non è solo uno sport e un’arte marziale. Il suo fondatore Jigoro Kano ha sin da subito promosso questa disciplina come un metodo educativo per formare delle persone sane, responsabili ed utili per la società. Questo aspetto educativo del judo si realizza attraverso la promozione della condotta morale che dovrebbe essere trasmessa all’interno dei dojo, sin da subito, ad ogni giovane aspirante judoista.

Questa condotta (o codice morale) si è evoluta nel tempo ed attualmente, la maggior parte delle federazioni nazionali, identificano e promuovono otto virtù morali.

La virtù a cui facciamo riferimento in questo articolo è l’amicizia, in giapponese “yujo”.

In letteratura questa virtù viene descritta come il "costruire insieme riconoscendo i propri limiti, accettando quelli degli altri ed effettuando uno sforzo costante nel tentativo di migliorare sé stessi ed il proprio gruppo".

Se svolta con impegno la pratica dell’allenamento, con la sua fatica ed il continuo mettersi alla prova nelle varie attività con diversi compagni, facilita e rende quasi automatico l’instaurarsi di relazioni di amicizia tra i judoisti, dentro e fuori dal tatami, indipendentemente dalle differenze di età, fisiche, di sesso e dalle proprie origini.

 

A tal riguardo un bellissimo esempio è l’amicizia nata tra l’iraniano Sayed Mollaei e l’israeliano Sagi Muki. Ai mondiali di Tokyo del 2019, Mollaei - campione del mondo in carica della categoria -81 kg - venne sottoposto a pressioni dalla propria federazione iraniana affinché perdesse in semifinale, al fine di non incontrare in finale Muki. Dopo questo avvenimento che, divenuto un caso pubblico, provocò un gran scalpore mediatico e fece bandire fino a marzo 2021 la federazione iraniana dalle competizioni internazionali, Mollaei non rientrò in patria e si rifugiò dapprima come profugo in Germania ed in seguito trovò una nuova patria in Mongolia dove è stato naturalizzato, in tempo per regalare al paese (alle recenti Olimpiadi di Tokyo) la medaglia d’argento.

Conosciute le circostanze e la pressione patita da Mollaei ai mondiali del 2019, l’israeliano Muki ne è divenuto amico ed addirittura compagno di allenamento di Mollaei. La loro storia di amicizia non va solo oltre la sana rivalità sportiva, ma ha superto i confini storici-religiosi che dividono i loro paesi d'origine, divenendo un bellissimo esempio di "yujo".

 


I VIAGGI IMMAGINARI DI JIGORO KANO: quel viaggio in Europa

Una sera d’agosto mentre ammirava le stelle seduto su una panchina sulla spiaggia, Jigoro Kano si ricordò di quella volta che era stato in Europa. Dopo aver visitato Parigi, Londra, Madrid e Lisbona si era recato al mare in Italia. Su una rivista aveva letto che il caldo del Mediterraneo era molto salutare e quindi aveva deciso di trascorrere alcuni giorni al mare con la moglie Sumako, le figlie Noriko e Atsuko e il figlio Risei.

Una mattina, mentre Noriko e Atsuko costruivano castelli di sabbia con la mamma, Risei andò in mare con una barca accompagnato dal papà. Purtroppo quel giorno il tempo cambiò, il cielo diventò grigio e il mare iniziò ad agitarsi. Quelle piccole onde che fino a pochi minuti prima dondolavano la barca adesso iniziavano ad essere alte. Risei iniziò ad avere paura e con le lacrime agli occhi guardò il padre. Jigoro Kano, viaggiando spesso, aveva già vissuto situazioni simili e ancora prima che Risei aprisse bocca aveva già iniziato a remare verso la riva. Proprio lì, la sua attenzione cadde su una famiglia di delfini che si stava divertendo a cavalcare il mare. Jigoro Kano osservò attentamente la facilità e l’armonia con le quali l’onda riusciva a trasportare quegli splendidi mammiferi. Chiuse gli occhi e s’immedesimò, studiò come poter proiettare con la stessa facilità e armonia un compagno. Ritornato in hotel, dopo aver raccontato la scampata disavventura in mare, prese carta e penna e disegnò quel movimento che noi oggi conosciamo come Tomoe Nage.


"DOJO YABURI"

Il termine "dojo yaburi" si traduce con "distruggere il dojo".

Storicamente rinvia ad eventi legati alla storia delle arti marziali riconducibili a sfide tra scuole rivali.

Non bisogna infatti pensare che il Kodokan Judo, ossia la scuola di Jigoro Kano sia stata ben accetta da chi, all'epoca, dirigeva altre più o meno rinomate scuole di ju-jutsu. Tutt'altro, Jigoro Kano era considerato un intellettuale sognatore e la sua scuola una pericoloso avversaria.

Nel ju-jutsu dell'epoca i principi e le filosofie erano ben lungi. L'obiettivo era chiaramente quello di ottenere il successo e la supremazia; per sopravvivere una scuola doveva dimostrasi superiore.

 

Il "dojo yaburi" funzionava così. Il rappresentante di una scuola (potremmo chiamarlo il campione) si presentava al dojo della scuola rivale chiedendo di sfidare il miglior allievo e, in successione, il maestro. Se riusciva a sconfiggere entrambi se ne andava portando con sé le insegne della scuola battuta, il che portava alla rovina della stessa.

Anche il Kodokan, nei suoi primi anni, dovette superare tali situazioni.

Le cronache riferiscono di una sfida superata grazie a Yoshiaki Yamashita e a Shiro Saigo, i quali - contravvenendo agli ordini di Kano che aveva imposto di non accettare sfide in sua assenza - accettarono di affrontare tre ju-jitsuka che si erano presentati al dojo con il chiaro intento di screditare il Kodokan. Yamashita e Saigo ebbero la meglio e i ju-jitsuka se ne andarono scornati e sconfitti.

Nel libro "L'avvenuta del judo" di Cesare Barioli (2004, edizione Vallardi) la vicenda viene raccontata nel dettaglio.

 

È indubbio che il judo deve il suo successo iniziale ai risultati che i suoi EROI hanno ottenuto: superando le sfide individuli dell'epoca e vincendo la competizione per l'insegnamento alla polizia metropolitana di Tokyo (di cui abbiamo riferito nel secondo numero di TDJ).

Grazie a tali successi la disciplina si è sviluppata ed ha potuto diffondersi, prima in Giappone e successivamente (con il secolo XX) nel mondo.

Non consta che Jigoro Kano abbia partecipato personalmente a combattimenti per dimostrare la superiorità del proprio metodo; indubbiamente ha potuto contare su allievi che lo hanno fatto eroicamente per lui e per la scuola. Di tali allievi nella rubrica "I protagonisti della storia" già abbiamo presentato Tsunejiro Tomita e Sakujiro Yokoyama.

 

Oggi "non è più tempo di eroi", di sfide da affrontare tuttavia ve ne sono sempre: la prima e più importante è la sfida con il tempo. Chi intende praticare deve sapersi ritagliare il tempo necessario, perché il judo si apprende sul tatami praticando con i compagni di allenamento, non sui libri o in centri fitness ... il solo sapere o i soli muscoli non fanno un judoka !

 

 

Oggi il judoka vero non è (forzatamente) un eroe, è però un combattente che ha acquisito - grazie alla pratica del judo - salute, forza e consapevolezza di sé e della propria utilità.

Apprendere la disciplina è operazione che dura una vita; praticarla con assiduità e regolarità è indispensabile adeguando - al trascorrere del tempo - le modalità.

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