“Mio padre ha attraversato i principali eventi che hanno contraddistinto la storia recente del Giappone. Nella sua primavera ha faticato a condividere i valori che Kano ha inteso promuovere. Successivamente si è convinto della loro importanza. Trascinato dagli eventi ha tuttavia alternato momenti di prostrazione a momenti di riscatto. Sul finale non ha retto. Il racconto della sua vita è un’occasione per passare in rassegna i principi che io stesso ho appreso e nei quali mi sono riconosciuto. In fin dei conti il judo, inteso rettamente, è una vera scuola di vita. I suoi principi, per chi ha compreso, devono trovare applicazione nella vita quotidiana” disse Takero Maruyama a Hifumi, che si era sistemato al computer, pronto a scrivere quanto il maestro intendeva tramandare ai posteri. “Sei pronto?”
Hifumi rispose di sì anche se, dentro sé, aveva iniziato a chiedersi che interesse oggi potesse avere la storia di Hiroshi e Takero.
1.
Mio padre Hiroshi era nato all’inizio del XX secolo.
Era il primogenito del Clan Maruyama, famiglia benestante che nel periodo Tokugawa aveva servito il daimyo di Miyazu,
Io nacqui quando lui aveva compiuto cinquantasei anni.
Dopo una lunga fase di meditazione, nei decenni che seguirono la Seconda guerra mondiale, Hiroshi aveva preso coscienza dell’importanza di contribuire al ciclo naturale della vita. Seguendo l’invito di Kumiko, la miko del santuario shinto Amanohashidate, aveva dunque deciso di prendere moglie, con l’intento di generare un discendente che potesse perpetuare la trasmissione dei valori che riteneva importanti.
Mio padre fu colui che mi inculcò ogni sorta di principio. L’Hagakure era il suo manuale di riferimento, condito dai principi del judo, da qualche ricordo dei trascorsi sui tatami al Kodokan e dei tre viaggi che aveva avuto modo di effettuare con Jigoro Kano. Il 4 maggio 1938, in pieno Oceano Pacifico, Hiroshi aveva visto morire il Fondatore, a bordo del piroscafo Hikawa-maru.
Mia madre era mancata dandomi alla luce; della mia educazione pertanto era stato mio padre ad occuparsene in via (quasi) esclusiva. Per mia fortuna della mia crescita si interessò anche Kumiko, la cui madre era stata la governante del Clan Maruyama e che - incomprensibilmente per me - manifestava interesse per la mia educazione.
Hiroshi visse fino a settant’otto anni. Morì a Kumamoto facendo seppuku. All’epoca avevamo litigato, da alcuni anni non avevamo più rapporti. Benché sapesse di avere generato un discendente e di averlo educato a dovere, non accettava il fatto che io potessi effettuare delle scelte autonome.
Era un uomo all’antica, con trascorsi difficili, di cui tuttavia vi sono aspetti che è opportuno conoscere e tramandare. Ho sempre pensato che, se nulla venisse appreso dalle esperienze di chi ci ha preceduto, la storia sarebbe un succedersi di eventi ignoti e gli errori commessi si ripeterebbero, con regolare e tragica sequenza, all’infinito. Questa in fondo è la ragione per cui ho deciso di lasciare questo scritto a chi in futuro si occuperà della scuola di Miyazu.
A questo punto Takero fece una pausa.
Ricordare le sue origini l’aveva stancato. A Hifumi chiese di rileggere quanto aveva dettato. “Non sapevo che suo padre avesse effettuato dei viaggi con Kano” disse il giovane prima di procedere alla rilettura.
“Vi sono molte cose che non puoi conoscere. Mio padre ha avuto una vita molto particolare. Me ne parlava regolarmente durante l’adolescenza, sottolineando come “noi ragazzi di fine anni Cinquanta” nemmeno potevamo immaginarci cosa significasse avere vissuto nel periodo Taisho e nel primo periodo Showa.[1]
Hiroshi aveva accompagnato Kano ai giochi olimpici di Los Angeles (1932) e di Berlino (1936) e nell’ultimo viaggio al Cairo per la conferenza del Comitato Internazionale Olimpico che avrebbe dovuto esprimersi nuovamente sui giochi del 1940 attribuiti a Tokyo. Ne era così divenuto una sorta di assistente/confidente ed aveva avuto modo di raccogliere le sue impressioni su varie questioni. Come ho già detto però non era un personaggio facile, pensa che non l’ho mai visto sorridere.”
“Non posso crederci” riprese Hifumi. ““Ichi-nichi issho” [2] ricorda il proverbio Maestro?”
“Certamente lo ricordo e lo condivido appieno. Mio padre tuttavia, nel suo inverno, non era più nella condizione di sorridere e quando non riesci più a sorridere hai perso il gusto della vita”.
“È augurabile che siano anzitutto i miei discepoli a dare l’esempio, attraverso il miglioramento di sé stessi secondo le modalità della Via dimostrandone l’applicazione nella vita pratica.”[3]
[1] La storia giapponese si suddivide in “periodi” che fanno riferimento all’imperatore.
Il periodo Taisho (1912/1926) riferito all’imperatore Yoshihito, succede al periodo Meji (1868/1912) e precede il periodo Showa (1926/1989) dell’imperatore Hirohito. Nel periodo Meji (sotto l’imperatore Mutsuhito) caratterizzato dall’apertura all’Occidente e da una profonda trasformazione del paese, nacque Jigoro Kano.
[2] “Ichi-nichi issho” letteralmente “ogni giorno, un sorriso”.
[3] Kano, Messaggio ai discepoli, Judo (ottobre 1922).