Da qualche tempo aveva iniziato a sentire dei dolori fisici.
La gamba destra, in particolare sembrava non sopportare più il suo peso.
Facendo finta di nulla aveva proseguito, senza curarsene. Non aveva una particolare fiducia nei medici, tuttavia c’erano momenti in cui le fitte divenivano insopportabili, anche per il suo spirito indomito di judoka.
A questi dolori si erano poi aggiunte difficoltà visive e percezioni di scarso equilibrio che lo avevano portato a rallentare i movimenti.
Takero Maruyama aveva compiuto da poco cinquantasei anni, da trent’anni insegnava judo a Miyazu nel piccolo dojo, recuperato dal padre Hiroshi, in cui aveva investito tutto il suo entusiasmo, il suo sapere e i suoi averi. Il Clan Maruyama era una famiglia guerriera, la cui storia si era sviluppata in parallelo a quella dei daimyo di Miyazu. Takero era cresciuto a “riso e judo” grazie al padre che aveva conosciuto Jigoro Kano e che, negli ultimi anni della sua vita, lo aveva accompagnato nei suoi viaggi all’estero.
“Educazione, rispetto, onore” erano i tre valori che giornalmente gli erano stati inculcati. Hiroshi era uomo d’altri tempi, aveva partecipato alla Seconda guerra mondiale, era stato imprigionato, aveva subito una menomazione fisica, aveva trascorso anni in un monastero convinto di dover essere perdonato.
I militari, che avevano preso il potere negli anni Trenta del XX secolo, avevano cercato, senza porsi limiti e scrupoli, di conquistare tutti i territori del Pacifico incuranti del fatto che, così facendo, avrebbero scatenato una guerra ad ampio raggio che non avrebbero mai potuto vincere. Le atrocità commesse, alle quali senza volerlo aveva preso parte attiva, avevano squalificato per sempre il paese. Era convinto che il Giappone non meritasse alcun perdono.
Hiroshi era divenuto padre a cinquantasei anni, dopo avere passato parte della propria vita a meditare sugli eventi trascorsi e sul senso dell’esistenza. Un padre rigido, all’antica. Un padre che non conosceva il sorriso e che nel figlio vedeva unicamente il proseguimento della propria vita, prossima al termine.
Quel giorno Takero Maruyama arrivò al dojo in anticipo.
Non essendosi mai sposato e non avendo figli si era dedicato anima e corpo alla trasmissione del judo e dei suoi valori alle giovani generazioni.
Tra tutti gli allievi che aveva formato ricordava, con grande piacere, Shinnosuke, un ragazzo che si era avvicinato al judo per caso, ma che presto ne era rimasto affascinato al punto da impegnarsi, come nessuno mai al suo dojo.
Con il tempo Shinnosuke era divenuto vicecampione del mondo a due riprese, campione d’Asia e tre volte campione nazionale senior. Lo ricordava con stima, nostalgia e rispetto visto che da tempo i contatti si erano diradati.
Entrando nella sala di ricezione del dojo Takero trovò Hifumi, l’allievo trentenne (già compagno di squadra di Shinnosuke) che - da qualche tempo - lo aiutava con i corsi.
“Maestro è arrivato uno scritto di Shinnosuke. Finalmente si sposa con Kaori. È invitato ai festeggiamenti che, dopo la cerimonia privata, si terranno nel parco del castello di Kumamoto.”
“Mi fa molto piacere” rispose Takero. “Sono convinto che sia una coppia destinata ad un bellissimo futuro. Entrambi credono nella famiglia. Sono certo che daranno il massimo per far funzionare tutto quello che la vita riserberà loro. Non mi sento però di partecipare: la trasferta è lunga e attualmente fatico a spostarmi. Potresti andare tu quale mio rappresentante?”
Hifumi, anche se sorpreso, rispose di sì.
“Bene, allora scriverò a Shinnosuke ringraziandolo; gli indicherò che sarai tu a presenziare ai festeggiamenti in mia vece. Siete sempre stati in buoni rapporti, compagni di squadra e amici, anche se, ai campionati nazionali di qualche anno fa, vi siete incontrati in semifinale e ti ha sconfitto al suolo al golden score. Penso di regalargli le conchiglie di mare (“noga-noshi”), sono considerate beneaugurali e - anche se non credo in queste cose - mi piace ricordare il valore della tradizione.”
La discussione venne interrotta dal vociare di un gruppo di ragazzini che si apprestavano ad entrare al dojo.
Varcata la soglia tutti si zittirono immediatamente. Salutarono il maestro Maruyama con un perfetto inchino e, dopo avere posizionato ordinatamente le scarpe nell’armadio posto sul lato destro dell’entrata, si diressero verso lo spogliatoio. I giovani erano sorridenti, tra loro vi era piena armonia. Si capiva che non vedevano l’ora di indossare il judogi, di annodare la cintura bianca e di prendere parte alla lezione. A Maruyama venne da pensare che, anche se il rapporto maestro-allievo attuale non era paragonabile a quello della sua giovinezza, l’importante era che rispetto ed educazione fossero sempre garantiti. “Chi insegna non può abdicare dal proprio compito di educatore. Insegnare i valori e riprendere chi, con il proprio comportamento, dimostra di non condividerli (o di non averli ancora assimilati) rimane fondamentale. Jigoro Kano ha mostrato chiaramente la via da seguire.”
Quando l’atrio fu di nuovo libero Maruyama riprese: “Hifumi! Potresti tenere tu il corso oggi? Non mi sento bene, preferisco rimanere a guardare a bordo tatami.”
“Certo Maestro, nessun problema” rispose Hifumi che però cominciò ad interrogarsi. “Takero Maruyama che non partecipa al matrimonio di Shinnosuke, il suo allievo preferito, e che non tiene il corso? Due segnali molto strani. Che vi sia un problema serio di cui non vuole parlare? Spero proprio di no.”
Iniziava così l’ultimo anno di vita di Takero Maruyama, anche se lui non poteva saperlo.
Non presenziare al matrimonio di Shinnosuke gli costava parecchio. Per nulla al mondo però Takero si sarebbe recato a Kumamoto; la cittadina del Kyushu, che non aveva mai voluto visitare, gli evocava solamente brutti ricordi.
“Apprendiamo i detti e le gesta degli antichi per affidarci alla loro saggezza, nonché per impedire che attecchisca l’egoismo.”[1]